LA SCOPERTA

Sconosciuto a lungo alla ricerca archeologica, l’insediamento rupestre di Vallone Canalotto sale agli onori della cronaca solo alla fine degli anni ’90, quando, su segnalazione dell’allora sindaco di Calascibetta, l’Archeoclub di Enna effettua una ricognizione dell’area, mettendo in luce l’importanza di questo luogo.
Noto soprattutto ai lavoratori della forestale, che in quegli ampi aggrottati si riparavano dalle intemperie, e conosciuto dai pastori della zona come “mànnari da’ Casa ‘o Masciu” (o Casa del Mastro, nome della contrada in cui si trova il sito archeologico; la parola “mànnara” si riferisce, invece, a un luogo di allevamento, spesso in grotta, soprattutto di ovini, ancora comune in Sicilia), il “villaggio nella roccia” si svela invece, poi, in tutta la sua straordinarietà, suscitando grande interesse.
L’insediamento, infatti, viene valorizzato pochi anni dopo, attraverso l’esproprio di una parte dell’area e opere di restauro, ripulitura di alcuni ambienti, messa in sicurezza dei costoni rocciosi e dell’interno delle caverne, e la creazione di sentieri, scale e staccionate. Lavori, questi, finanziati con fondi europei e portati avanti dal Comune di Calascibetta e dall’allora Dipartimento Regionale Azienda Foreste Demaniali, attuali proprietari del sito archeologico. In seguito, su nostro suggerimento, il sopracitato dipartimento ha provveduto ad una ulteriore e utilissima opera di valorizzazione dell’area, dotandola di cestini per i rifiuti e panche in legno.

ARCHEOLOGIA

L’insediamento è localizzato tra il Vallone Canalotto e il Bosco di Casa del Mastro, affacciandosi sulla Valle del Morello, compresa tra i territori di Enna, Villarosa e Calascibetta, e bacino archeologico di grande importanza, frequentato da quasi sei millenni, come hanno dimostrato le ricerche degli ultimi dieci anni, soprattutto nei siti di Monte Giulfo, Case Bastione e Contrada Gaspa.
Il nome del sito archeologico, rimanda al periodo della dominazione bizantina della Sicilia, durata dal 535 all’827 d.C., tuttavia, l’insediamento, mostra la chiara e continua sovrapposizione di testimonianze risalenti
a diversi periodi storici.
Poche sono le tracce materiali finora rinvenute, riferibili al ritrovamento di reperti archeologici, e ciò è dovuto principalmente al continuo e intenso utilizzo degli ambienti in grotta, e all’assenza di campagne di scavo archeologico. Pertanto, ogni possibile indicazione cronologica di frequentazione dell’area, è tratta dai residui frammenti ceramici ritrovati durante le opere di ripulitura degli ambienti e, soprattutto, dall’osservazione e dallo studio dei rilievi eseguiti sull’architettura rupestre del sito. Elementi, questi, che indicano che l’insediamento, almeno fino al periodo islamico, sembra non sia mai stato abbandonato e abitato costantemente.
Le tracce di frequentazione più antiche ad oggi rinvenute, sono riferibili alla tarda Età del Rame, e sono deducibili da due tombe a grappolo, la cui peculiarità consiste nel fatto che queste piccole celle funerarie, non venivano ricavate sfruttando la verticalità delle pareti rocciose (come avviene nella maggioranza dei casi per le necropoli pre e protostoriche siciliane), quanto la profondità, così da creare camere comunicanti tra loro (da qui il nome di tomba a grappolo, riferito al grappolo d’uva).
Altre celle funerarie ricavate nella roccia, alcune dalla forma più o meno originaria, altre totalmente stravolte dagli agenti atmosferici o dalla mano dell’uomo, ma di cui si intuisce ancora l’aspetto, sembrano invece risalire all’Età del Bronzo (2200 a.C.-X sec. a.C., ma ad oggi risulta difficile stabilire il periodo esatto delle tombe rinvenute a Canalotto) e a quella del Ferro (IX sec. a.C.).
Il passaggio al periodo greco-arcaico (VIII-VI sec. a.C.), è invece testimoniato da tombe a camera localizzate in vari punti dell’area. Nella quasi totalità dei casi, esse presentano tetto piano o leggermente curvilineo, mentre, in una sola occasione, quella che sembra poi diventare uno dei due oratori di impronta cristiana, ha un tetto a spiovente. Un elemento, questo, che la ricerca archeologica ha attribuito a sepolture destinate a persone di più alto rango sociale, dati i ritrovamenti, in più occasioni, di corredi funerari più importanti all’interno di tombe che presentano la peculiarità del tetto a spiovente, rispetto a ciò che viene restituito da quelle con tetto piano o curvilineo.
Altri elementi che accomunano questo tipo di sepolture, in alcuni casi ancora visibili, sono le banchine di deposizione, sulle quali venivano adagiati i corpi dei defunti, e il dromos, un piccolo corridoio di accesso alle camere, intagliato nella roccia, e a volte provvisto di scalini.
La frequentazione del sito in età romana e tardoantica, è ampiamente attestata da tanti elementi peculiari, come le tombe ad arcosolio, quelle a forma e tre columbaria.
Interessante notare, come l’utilizzo delle tombe ad arcosolio e dei columbaria, sia cambiato nel corso dei secoli. Da un uso prettamente funerario, infatti, gli arcosoli (arco+solium= tomba scavata nella terra), sia monosomi che polisomi, sono diventati, in più di un’occasione, delle mangiatoie. Lo stesso è avvenuto per i columbaria che, da luoghi per la deposizione di urne cinerarie, sembra divennero, in epoca bizantina, luoghi di allevamento di colombe e piccioni.
Più in generale, le trasformazioni nell’utilizzo degli ambienti scavati nella roccia, sembra siano stati radicali durante il periodo bizantino e alto-medievale. Se fino a quel momento, infatti, la roccia di quest’area veniva scavata e utilizzata principalmente per la deposizione dei defunti, sembra invece che in seguito, gli stessi ambienti divennero funzionali alla vita quotidiana della comunità, dai rituali religiosi, ai romitori, alle attività produttive. Esempio di tali attività, è uno dei due palmenti presenti nell’insediamento, ricavato all’interno di quello che era un ipogeo funerario.
La tipologia di entrambi i luoghi di produzione, è quella tipica dell’enotecnica meridionale, ovvero, un complesso di recipienti, costituito da due vasche poste su due livelli diversi e comunicanti mediante un foro, destinati alla pigiatura dell’uva e alla successiva fermentazione del mosto. Ambienti spesso ricavati da sepolture tardo-romane, svuotate e riadattate, come nel caso del primo dei due palmenti.
All’interno di uno di questi antichi ipogei funerari, sono stati individuati dei tagli regolari nella roccia, da ricondurre all’uso di macchinari funzionali alla trasformazione di materie prime derivate dall’agricoltura e dall’allevamento.
Altri esempi di tali cambiamenti, sono riscontrabili in tutta l’area, come nel caso dei due oratori, il primo dei quali, in particolare, mostra la contemporanea presenza di elementi riferibili a diversi periodi storici: quello che sembra essere l’ingresso di una tomba dell’Età del Ferro, il tetto a spiovente di epoca greco- arcaica, dei piccoli arcosoli e una piccola tomba a forma risalenti all’età romana e tardo-romana, e altri elementi più recenti, legati invece alla vita quotidiana, come degli anelli scavati nella roccia, per legarvi gli animali.
Ciò che incuriosisce maggiormente, all’interno di questo ambiente, sono i simboli intagliati nella roccia, che sembrerebbero testimoniare la sua trasformazione da ipogeo funerario a luogo di culto. Si tratta di due croci trilobate (o patenti), un cristogramma e una stella a cinque punte.
Di particolare interesse, risulta un sistema di tre gallerie sotterranee per la captazione e canalizzazione delle acque, identificato come un qanat di fattura islamica, testimonianza di un probabile insediamento localizzato qui nel periodo della dominazione araba della Sicilia.
Tutta l’area è caratterizzata da mura a secco, utili soprattutto a delimitare delle zone destinate agli animali da allevamento. Un lungo muro di cinta, in parte superstite, delimitava, invece, la zona del nucleo principale dell’insediamento, un elemento che permette di ipotizzare una più recente trasformazione in masseria dello stesso. Ipotesi avvalorata dall’utilizzo come stalle e luoghi di caseificazione che i pastori fecero di questi ambienti fino agli anni ’90, e dalla presenza di un lavatoio situato accanto al qanat.
Testimonianze orali, inoltre, indicano questo luogo come uno degli improvvisati rifugi utilizzati durante la Seconda Guerra Mondiale. Difatti, nonostante l’insediamento sia proteso verso la Valle del Morello, la sua localizzazione è sempre risultata difficoltosa, a causa della sua posizione all’interno di una vallata profonda più di quaranta metri, e della vegetazione che per secoli lo ha protetto e fortificato. Di recente pubblicazione, un articolo molto interessante dell’archeologo e consulente scientifico dell’associazione, Sandro Amata, relativo ad alcuni dei tanti insediamenti che si affacciano sulla Valle del Morello.
Nell’articolo, si ipotizza una nuova e diversa interpretazione dell’insediamento rupestre di Vallone Canalotto. Amata, sostiene, infatti, che la creazione dei luoghi di culto cristiani, e i relativi simboli che li caratterizzano, non sono da ricondurre alla comunità bizantina insediatasi a Canalotto, bensì a una comunità monastica che abitò l’area dalla fine della dominazione araba della Sicilia (XI sec.), e alla quale si deve la trasformazione di alcuni ambienti in luoghi di produzione e trasformazioni di materie prime. Luoghi, questi, la cui importanza è tra l’altro evidenziata nei manoscritti e negli affreschi monastici dell’epoca.
Agli abitanti di fede islamica (IX sec.), Amata attribuisce, invece, la trasformazione in abitazioni, degli ipogei funerari e l’introduzione quindi di un sistema abitativo basato sul trogloditismo, comune nelle regioni da cui queste genti provenivano.

NATURA

Il Villaggio bizantino occupa una vasta area compresa tra il Vallone Canalotto e il Bosco di Casa del Mastro, un contesto di grande interesse naturalistico, dato dalla grande e netta differenza di vegetazione che caratterizza le due zone.
Il Bosco di Casa del Mastro, che ospita la zona sommitale del sito, è l’esempio più comune di rimboschimento attuato nel corso degli ultimi 50/60 anni dalla forestale, con esemplari di eucalipti che si alternano a pini domestici, pini d’Aleppo e pini marittimi. Più rari i cipressi, e ancora di più gli esemplari di roverella, la cui piantumazione è stata ripresa solo nell’ultimo decennio. Qua e là, fanno tuttavia capolino anche tipici esempi di macchia mediterranea, come olivastri, terebinti e carrubi.
Data la forte presenza di pini ed eucalipti, poco spazio è lasciato al sottobosco, caratterizzato soprattutto da ampelodesma, cisto villoso, cisto bianco e timo. Ciononostante, tra l’inverno e la primavera, è abbastanza comune imbattersi in splendide orchidee e iris, soprattutto l’orchidea Italica (omino nudo), la barlia robertiana, l’ophrys fusca, la bellavedova e il giaggiolo, ma anche in altri tipi di piante come la scilla marittima, l’asfodelo e la sternbergia, che non disdegnano i terreni calcarei.
La fauna di questa zona del sito, è caratterizzata soprattutto da volatili come gazze, ghiandaie, colombacci, taccole, cornacchie, corvi imperiali, e non è raro vedere nel cielo la classica posizione dello “Spirito Santo” assunta dal gheppio e i cerchi concentrici disegnati dalla poiana, o sentire il picchio rosso battere col becco sui fusti degli alberi.
Inequivocabili le tracce lasciate dal sempre più raro coniglio selvatico, dalla volpe, dal riccio e dall’istrice, o i versi della civetta, dell’assiolo o del barbagianni, animali la cui presenza è accertata anche nella zona a valle. Idem per quel che riguarda la lucertola siciliana, il gongilo, la lucertola muraiola, il ramarro, il geco verrucoso e quello comune, che si possono trovare indifferentemente nel Bosco di Casa del Mastro o nella zona del vallone.
Il Vallone Canalotto, ricco di sorgenti, è custode di un antico patrimonio naturalistico, caratterizzato dalla tipica macchia mediterranea. Querce, soprattutto roverelle, alcune delle quali secolari, e poi mirti, alaterni, perastri, e svettanti pioppi neri, bianchi e tremuli, a ricordare quella che un tempo era la tipica vegetazione di tutta quest’area.
La vegetazione bassa, è costituita perlopiù da salsapariglia, rosa canina, edera, felce, equiseto, anche se localizzato solo in prossimità di una sorgente d’acqua sulfurea, e capelvenere, presente sulle umide pareti di roccia delle tante sorgenti d’acqua. Piante come nepitella, verbasco, ginestra, mandragora, artemisia, pungitopo, finocchio selvatico, valeriana rossa, iperico, ferula e acanto, sono tanto comuni in questa parte bassa del sito, quanto in quella a monte, nella zona del Bosco di Casa del Mastro, anche se in percentuale minore.
Data la presenza delle sorgenti, tra gli animali più comuni che vivono nella zona del vallone, vi è la rana verde, il discoglosso, il rospo comune e quello smeraldino, il biacco e la biscia dal collare.
Tra i volatili, molto comune è il merlo, la cinciarella e lo scricciolo, mentre tra i mammiferi, oltre al già citato coniglio selvatico, alla volpe, all’istrice e al riccio, presenti anche nel Bosco di Casa del Mastro, vi sono varie specie di pipistrelli ed è segnalata la sporadica presenza di cinghiali.
L’alternarsi delle stagioni, poi, porta in dote a tutta l’area un trionfo di colori: dalle varie sfumature di orchidee, iris, cisti e sternbergie, al blu dei fiori della borragine e del centocchio dei campi, dal giallo di ranuncoli, boccioni, ginestre e acetoselle, al viola di succiamele, lampascioni e bituminosa, dal rosa di vilucchio e centauro maggiore alle straordinarie forme e colori dei fiori del cappero.